Dove va la narrazione
di Laura Bortoloni
Ho avuto la fortuna questa primavera di visitare Storyscapes, una selezione di progetti transmediali frutto di una collaborazione tra il Tribeca Film Institute e Bombay Sapphire Gin.
Saliti al 121 di Varick Street con il più classico dei montacarichi neworkesi, incoraggiati dai vari cocktail base gin offerti, abbiamo speso qualche buona ora visitando le cinque installazioni messe in scena sui due piani di mostra. In tasca l’iPhone con l’app dedicata House of Imagination, una piccola iniziazione per me visto che l’app sfrutta la tecnologia iBeacon che non mi era ancora capitato di vedere in opera.
A proposito di iniziazioni, ho provato per la prima volta l’Oculus Rift – che ero curiosa di provare; mi ero imbattuta in questo articolo che ragionava sulle differenze di genere nell’uso delle tecnologie 3d.
Non so dire se la mia visione sia stata più o meno soddisfacente per via del mio genere – fatto sta che è un’esperienza molto forte – la sensazione di comandare azioni e movimenti con lo sguardo è piuttosto inconsueta.
Clouds, di Jonathan Minard e James George, è una sorta di meta progetto transmediale, di riflessione destrutturata sull’emergere di nuovi artisti digitali e narratori crossmediali.
La struttura del documentario non è lineare, ma ogni contributo va a creare un punto nodale di una specie di più grande nebulosa di voci e volti di tutti i “nuovi eroi” di questo movimento, o quanto meno i miei “nuovi eroi”: da John Maeda a Casey Reas, Jer Thorpe, LIA, Bruce Sterling.
Il documentario era presente due volte: in un’installazione interattiva fisica, dove il tuo gesto ti permetteva sia di navigare nei contenuti che di contribuire alla creazione di immagini, che in una installazione di realtà aumentata fruibile con l’Oculus Rift. Il che rendeva in maniera forte la sensazione di essere realmente immersi, fluttuanti in questa nebulosa di contenuti senza centro e senza gerarchie, con la sola possibilità di vagare da una voce all’altra.
In assoluto l’esperienza più emozionante è stata quella di On a human scale di Matthew Matthew: tre pareti di volti e un pianoforte al centro. Per ogni volto, un video e una persona che canta una nota, attivata dal premere i tasti sulla tastiera del piano: un paesaggio di facce e storie e la possibilità di suonarlo, di trasformare una porzione di umanità in una esperienza corale. Il sito web del progetto racconta come no si tratti di un esperimento concluso, ma di un tentativo iterativo di creare una sorta di strumento musicale dell’umanità, incontrando la voce e il suono di persone e contesti sempre nuovi. L’installazione si prestava a un’esperienza collettiva – in particolare ho assistito a un concerto in cui la performance prevedeva due musicisti più il “pianista” dell’installazione. Proprio per questi elementi ludici e coinvolgenti – sociali –, e senza l’utilizzo di tecnologie invasive, l’installazione era particolarmente coinvolgente.
Quanto deve farsi “sentire” una tecnologia, e quanto deve rimanere “immersa” nella narrazione, strumentale ad essa? Quanto è accettabile che un device mi separi da una fruizione collettiva di una storia in favore di un’esperienza immersiva, ma solitaria? Ha senso credere che un tool stia facendo il suo lavoro quando mi dimentico dello strumento stesso, o questa è ormai una posizione retorica?
Queste le domande con cui sono uscita.