Visual Digital Manufacturing
Di designer e di artigiani, di fare pratico e di nuove tecnologie.
Come e perché reinventare e raccontare la tradizione italiana
L’artigianato caratterizza la cultura del nostro paese più di ogni altra cosa: è il tratto distintivo dell’Italia nel mondo, è il sinonimo dell’ingegnosità e della vivacità operosa tutta italiana. Guardiamo però al lavoro artigiano con occhio nostalgico, lo associamo al sapere dei nostri avi. Al contrario, è giunto il momento di interrogarsi su come possa svolgere nuovamente un ruolo centrale nell’economia italiana.
L’artigianato caratterizza la cultura del nostro paese più di ogni altra cosa: è il tratto distintivo dell’Italia nel mondo, è il sinonimo dell’ingegnosità e della vivacità operosa tutta italiana. Guardiamo però al lavoro artigiano con occhio nostalgico, lo associamo al sapere dei nostri avi. Al contrario, è giunto il momento di interrogarsi su come possa svolgere nuovamente un ruolo centrale nell’economia italiana. La risposta ci viene dalle pratiche del digital manufacturing, che può costituire un reale punto di svolta nella tradizione italiana.
Il digital manufactuting non è un fenomeno propriamente nuovo: esso trae origine da una serie di controculture d’oltreoceano che nel tempo si sono consolidate, confluendo in un movimento internazionale. In principio i suoi luoghi erano i cosiddetti spazi hacker, ambienti legati alla cultura del software (e del sapere) libero. Come è facile immaginare, tutto ciò che è stato immaginato, programmato e costruito in questi spazi si è intromesso nei college americani, passando per la porta di servizio. Non a torto, si associano i primi artigiani digitali — o più semplicemente i primi maker — in prima linea al MIT di Cambridge.
Non è errato affermare che il digital manufacturing esisteva molto prima dell’invenzione del suo nome; la novità sta nel fatto che non sia più un fenomeno marginale o legato a sperimentazioni accademiche, quanto un modello culturale ed economico riconosciuto a livello globale. Oltremodo, se negli anni ’80 le macchine di nuova generazione erano accessibili a pochi grandi imprese, oggi le nuove tecnologie sono accessibili anche ai piccoli laboratori.
La vera novità di questi anni è che l’accesso a queste tecnologie per la produzione digitale è diventato particolarmente facile e democratico.
— Stefano Micelli, Fare è innovare
Transitare tra due mondi
Il digital manufacturing trova in Italia un sostrato particolarmente vivace, poiché la ricchezza del nostro patrimonio artistico-culturale sta (anche) nel saper fare. Eppure il nostro paese soffre di una lenta digitalizzazione dell’artigianato, dettata soprattutto da scelte culturali. Il digitale non è semplicemente un “passaggio”, un upgrade, un attrezzarsi di nuovi strumenti. Il cambiamento presuppone di rivedere anzitutto alcuni paradigmi fondamentali del lavoro artigiano.
In questo emerge un vero scontro tra generazioni e sensibilità molto distanti: da una parte la vecchia generazione depositaria della memoria e del saper fare tradizionale, dall’altra la nuova generazione che crea, apprende e condivide conoscenza grazie alle nuove tecnologie. Nel mezzo ci troviamo dei gap culturali da sanare, primo fra tutti il riconoscere nel pezzo unico e nell’imperfezione i soli indicatori di autenticità, e nel digitale un riprodurre in serie a costi contenuti e in tempi ristretti. La questione è molto più articolata: quando parliamo di produzione in serie stiamo in realtà discutendo di design.
È evidente che ci troviamo di fronte ad un problema di linguaggio: abbiamo bisogno di mediatori, di figure ibride capaci di transitare liberamente tra due mondi distanti. I fab lab, che agiscono da facilitatori, sono in questo senso delle realtà molto interessanti: non sono semplici officine, quanto delle community internazionali dedite al continuo scambio e aggiornamento di risorse professionali. In ogni caso, un buon mediatore deve sporcarsi le mani e lavorare sul campo, saper utilizzare gli attrezzi tradizionali ma anche quelli di nuova generazione (ad esempio le stampanti 3d), saper applicare i principi del design parametrico e, come se non bastasse, comprendere le dinamiche del mercato digitale.
Abbiamo seguito da molto vicino il progetto di Botteghe Digitali, un format innovativo creato da Banca IFIS Impresa, Stefano Micelli e Marketing Arena. Botteghe Digitali ha intuito quanto fosse importante porre dei mediatori tra gli specialisti e gli artigiani, al fine innestare le pratiche del design nel fare artigiano.
In Italia, il successo del movimento dei maker, così come la diffusione dei Fab Lab, sono stati sorprendenti. Nel nostro paese ci sono quasi un centinaio di Fab Lab, alcuni dei quali sono molto attivi sui territori di riferimeto: in motli casi si tratta di inziaitive che fanno ancora fatica a trovare una loro sostenibilità economica, ma la diffusione di questi laboratori su tutto il territorio nazionale testimonia della vivacità di un tessuto economico e sociale che ha reagito rapidamente alle occasioni offerte dalle nuove tecnologie
— Stefano Micelli, Fare è innovare
Il designer e l’artigiano
Il mestiere del designer è spesso percepito come un lavoro artigiano, legato alla creazione di manufatti esteticamente interessanti. D’altra parte, c’è chi invece associa questo lavoro alle nuove tecnologie in maniera superficiale: se il designer utilizza strumenti digitali allora il suo campo di intervento è la progettazione digitale. Quella del designer è una pratica ben complessa, un insieme di più competenze difficilmente assolvibili in un’unica definizione. Sono molteplici i punti di contatto tra design e artigianato, come molteplici sono gli intrecci tra il design e la cultura digitale ed open source.
Come già accennato qualche riga più in alto, il design non esiste che nella riproduzione in serie di un prodotto; ciò vuol dire, che a differenza dell’arte e dell’artigianato, il design non consiste in un artefatto originale, quanto nelle sue copie. Allo stesso modo, si parla di visual design quando un’informazione o un discorso visivo è stato serializzato e diffuso. Sebbene il design — e, nello specifico, il visual design — possa servirsi degli stessi strumenti del lavoro artigiano, la differenza sta nel fatto che questi strumenti vengano utilizzati all’interno di un processo.
In Critica portatile al visual design, Falcinelli spiega questo passaggio prendendo in esame il primo esempio al mondo di visual design: la stampa a caratteri mobili inventata da Guntenberg, conosciuta anche come tipografia:
La differenza fra arte e industria però non risiede strettamente nella manualità o nelle macchine e i confini non sono affatto netti: la tipografia, come abbiamo visto, era fatta tutta manualmente ed è la prova che un processo manuale può — come caso limite — essere anche considerato industriale. L’opposto di «industriale» non è «manuale» o «artigianale», bensì «non pensato per la serie». Dove l’accento va anzitutto su «pensato».
— Riccardo Falcinelli, Critica portatile al Visual Design
La progettazione di procedure diventa una disciplina a sé quando si parla di design parametrico. È questo il caso in cui, il processo per ottenere un dato oggetto, è ottenuto con una serie di comandi scritti in linguaggi open source. Nell’ambito del visual design, si parla di design paramentrico quando questa metodologia è applicata nella realizzazione di artefatti comunicativi.
È una possibilità interessante ma che purtroppo, più che per reali necessità, è ancora legata a sperimentazioni tout-court. Il design parametrico, nella sua estremizzazione, assomiglia di più più un volersi autocitare; è questo il caso in cui l’infatuazione per un detto strumento diventa parte costitutiva di un metodo progettuale. Probabilmente — e qui adesso siamo noi ad estremizzare — non esiste ancora una reale cultura del design parametrico che scuota le menti dei futuri designer e artigiani.
Botteghe digitali
Il progetto Botteghe Digitali è nato con l’obiettivo di valorizzare l’artigianato Italiano, sperimentando un connubio nuovo tra la tradizione artigiana del Made in Italy e l’innovazione tecnologica. Chiamati a disegnarne il sistema di identità visiva, abbiamo accompagnato il progetto passo passo, dalla prima call rivolta agli artigiani, lanciata alla Maker Faire del 2015, fino alla costruzione di una piattaforma di storytelling digitale per accogliere prima il diario del progetto, e poi una web serie per la regia di Maria Cristina Redini.
La prima edizione di Botteghe Digitali si è conclusa alla Maker Faire di Roma nel 2016. Abbiamo costruito un vero e proprio laboratorio a cielo aperto, in cui gli artigiani potessero operare in tempo reale e i visitatori interagire con i progetti esposti, tra i quali alcune installazioni interattive realizzate dagli studenti del Master Iuav in Archiettura Digitale con la guida di Fabio D’Agnano. Per noi di Identity Atlas questo è stato un progetto integrato che ci ha messi alla prova su piattaforme differenti, e ci ha permesso di costruire un’esperienza transmediale.
Botteghe Digitali replica anche per il 2017, con un’edizione improntata alla crescita dei progetti artigiani selezionati: la call è aperta ancora per qualche giorno su www.botteghedigitali.it.